Spesso ci si chiede perché si parli di lavoro e questioni sindacali, solo quando di mezzo ci sono le grosse aziende, vedi Fiat.
Ebbene quando Powell scrisse il suo memorandum (qui in lingua originale) indicò chiaramente la via per “eliminare” i sindacati, o quanto meno, per minarne in modo determinante la forza: inserirli nel gioco della concertazione, così i lavoratori, non vedendosi rappresentati adeguatamente se ne allontaneranno.
Quello che sta succedendo oggi, in un processo iniziato negli anni settanta.
Per amor di verità storica, almeno in Italia e non solo, bisogna dire che il numero dei non iscritti al sindacato ha sempre superato il numero degli iscritti, l’azione sindacale non è mai potuta prescindere dai non iscritti. (Il primo sindacato organizzato a livello industriale nel nostro paese è stata la FIOM. )
E’ oramai nota, specie nelle piccole realtà, la distanza tra sindacalisti e lavoratori, appare evidente uno scollamento tra le due parti, quasi che non siano portatrici dei medesimi interessi.
Il mio non vuole essere un discorso disfattista, ed è pur vero che di persone valide ed appassionate nella trasversalità delle principali sigle, ancora si trovano, tuttavia la partita è giocata da forze impari, tra la forza attuale delle aziende e la forza del sindacato, ultimamente molto debole e costretto a cedere ai più disparati ricatti.
Nelle piccole realtà i lavoratori sono oggetto di ricatti ben più grandi di quanto non possa accadere in quelle “conclamate”, l’applicazione dello statuto dei lavoratori e del contratto nazionale di categoria è tutt’altro che scontata, in quanto, spesso, si va “in deroga” non per consulto tra le parti, ma semplicemente per prassi aziendale.
O fai così, o fuori dalla finestra.
Indubbiamente l’aumentare di forme di precarizzazione del lavoro contribuisce alla nascita di una “cultura” aziendale fortemente orientata al profitto, l’idea che il lavoratore debba essere concepito come costo o come componente della grande catena di montaggio produttiva monta in tutta la sua forza in quelle realtà che ricorrono a forme precarie di contrattualizzazione, e non meno importante, anzi nodo centrale, è che a concepirsi come costo e non come risorsa sia il lavoratore stesso: che sentendosi tanto debole non avanza richieste e si chiude nel compartimento stagno della propria mansione e spesso ha un atteggiamento talmente conciliante che è disposto a tutto nella vana speranza di compiacere il padrone.
Ci dicono che, con l’avvento della meccanizzazione dei processi produttivi, con lo smantellamento delle fabbriche la cui presenza è riconducibile a quella delle mosche bianche, la classe operaia non abbia più ragione di esistere.
Accettando questo assunto, per nulla falso, possiamo dire che, se non la classe operaia come matrice storica, ragione d’esistere ha la classe dei lavoratori come insieme d’esseri umani sottoposti a una sfruttamento: il problema reale dei lavoratori è, posta la parcellizzazione e la frantumazione delle tipologie contrattuali, trovare una ragion d’essere in quanto classe unica.
I lavoratori sono capaci di abbaiarsi addosso semplicemente perché appartenenti a categorie diverse, non mostrano alcun tipo di solidarietà trasversale e, nel peggiore dei casi, non mostrano nessun tipo di solidarietà fra di loro: individualismi che si scontrano con altri individualismi, incapaci di comprendere che l’unione ha sempre fatto il loro gioco, incapaci di vedere oltre il proprio praticello, visto che la cultura del “tutto e subito” non permette di scavalcare il solco dell’adesso, per proiettarsi nel poi, e vedere la prospettiva globale.
D’altro canto è importante inquadrare anche l’attività sindacale: essa è essenzialmente un’attività negoziale, che per definizione non vede parti perdenti, ma due parti che si fronteggiano nei loro opposti interessi, alla ricerca di un compromesso che soddisfi entrambe.
Inoltre bisogna dire che un negoziato può sbilanciarsi in favore di una o dell’altra parte, tuttavia, proprio perché l’attività negoziale non finisce “mai” almeno fino a quando l’azienda è in vita, un risultato positivo non è mai definitivo in quanto la parte soccombente nel precedente negoziato, può sempre risultare la parte vincente in quello successivo.
La concessione che ti do oggi è la rinuncia che farai domani.
Nella negoziazione entra sempre in gioco la forza e la capacità delle parti di negoziare.
Oggi sappiamo che il risultato, a guardarlo a ritroso, di questi decenni di contrattazione ha portato all’erosione sistematica di diritti acquisiti, le parti sindacali poi, nelle aziende più piccole amano il termini “rapporti distesi con le aziende” e non confliggono quasi mai, per loro la crisi attuale, inoltre è diventata un bel paravento per non svolgere azioni di sorta: basta che l’azienda garantisca il lavoro e loro tornano a casa felici e contenti.
Per concludere questo tema per nulla esaurito, sottolineo un aspetto inquietante dell’azione sindacale, parlo dei comunicati ai lavoratori alla fine delle riunioni (ho fatto una breve esperienza come RSU): i comunicati ai lavoratori, relativi a riunioni con l’azienda, sono costruiti con la stessa perizia che avevano i nazisti nello descrivere con parole più morbide gli assetti organizzativi dello sterminio degli ebrei, mi si perdoni il paragone. Voglio dire che i termini, se una riunione negoziale con l’azienda non ha esiti positivi per i lavoratori, vengono mascherati nella loro crudezza, per fare un esempio: se l’azienda dice che vuole licenziare, nel comunicato non comparirà mai il termine “licenziamento”, l’ostacolo verrà aggirato con termini ben più morbidi che arrivano infine a distorcere la realtà delle cose.
Davide.